Dalla frammentazione amministrativa alla necessità di massa critica: il prorettore del Politecnico di Milano per il Polo di Cremona, ing. Gianni Ferretti, indica nella cooperazione tra territori, università e imprese la leva strategica per rafforzare competitività, innovazione e capitale umano della Pianura lombarda.

Realizzato nell’area storica dell’ex caserma Manfredini, il nuovo Polo territoriale di Cremona del Politecnico di Milano rappresenta una delle più significative operazioni di rilancio urbanistico e accademico della città. L’edificio – nato dalla riconversione dell’ex caserma e successivamente ampliato con laboratori ad alta specializzazione – è oggi un hub di ricerca su robotica agricola, agritech, bioenergia e ingegneria musicale.
Spazi luminosi, laboratori di nuova generazione, aule modulari e una collocazione strategica a ridosso del centro e dei principali assi viari rendono il campus un punto d’incontro tra università e imprese della Pianura lombarda. Una scelta che non risponde solo a un’esigenza accademica, ma a una precisa visione di sviluppo: portare l’ingegneria dove si trovano le filiere produttive, valorizzando le vocazioni della Pianura e trattenendo competenze in un territorio che ne ha un bisogno crescente.

In questo scenario si inserisce la nostra intervista al professore ingegnere Gianni Ferretti, Prorettore del Politecnico per il Polo di Cremona, che abbiamo incontrato per approfondire la missione della sede, l’impatto sul sistema economico e il ruolo che l’ateneo può giocare nell’evoluzione di un territorio della Pianura lombarda che chiede più coordinamento, più innovazione e più capitale umano qualificato.
Professore, qual è la missione della nuova sede di Cremona? Che valore porta alla Pianura lombarda?
“Fin dagli inizi la strategia del Politecnico nei confronti dei poli territoriali è stata chiarissima: supportare le vocazioni del territorio. A Cremona le vocazioni sono due, cui fanno riferimento due lauree magistrali uniche nel panorama nazionale e molto attrattive anche all’estero: Music & Acoustic Engineering, in continuità con la tradizione liutaria del territorio; Agricultural Engineering, collegata a una filiera agroalimentare e agritech storicamente radicata e oggi in forte innovazione. La sede permette di sviluppare didattica e ricerca, con laboratori dedicati alla robotica agricola, alla bioenergia e alla valorizzazione degli scarti agroindustriali. L’obiettivo è rafforzare ciò che il territorio già esprime e portare nuova innovazione”.
Come si integra il Polo cremonese nella strategia complessiva dei poli territoriali del Politecnico?

“Il Politecnico considera Cremona assolutamente parte integrante della sua rete di poli territoriali. Ogni polo è costruito come una specializzazione coerente con il contesto produttivo di riferimento: Piacenza si concentra sulla meccatronica e sulle macchine automatiche, Lecco ha sviluppato negli anni una forte specializzazione nella bioingegneria e nello sport engineering, Mantova è diventata un polo di riferimento per architettura, restauro e beni culturali. Cremona porta nella rete una combinazione rara: musica, acustica e agritech. Due filiere che dialogano con settori differenti ma che hanno in comune un’elevata intensità tecnologica e una forte domanda di competenze specialistiche. In questo senso, il polo cremonese è pienamente inserito nella strategia Polimi: non un satellite periferico, ma un tassello distintivo dell’identità dell’ateneo”.
Quali opportunità apre l’insediamento del Politecnico per le filiere industriali e agroalimentari della Pianura?

“La prima opportunità riguarda il capitale umano. Le imprese della pianura, soprattutto quelle dell’agroalimentare e della meccatronica agricola, stanno attraversando una fase di fortissima trasformazione digitale: servono ingegneri che conoscano robotica, sensori, automazione, data analysis, sostenibilità dei processi. Il Politecnico sta formando profili che possono portare queste competenze dentro aziende che, pur essendo spesso di dimensioni medio-piccole, sono impegnate nel rinnovamento tecnologico. In molti casi si tratta di aziende che già operano su livelli di eccellenza mondiale, basti pensare alle realtà zootecniche e agritech che hanno introdotto tecniche di precision farming e smart farming con risultati avanzatissimi. Il Polo potrà generare valore anche attraverso progetti di ricerca congiunti, trasferimento tecnologico, formazione continua per tecnici e manager, creando un ecosistema più competitivo e ricettivo all’innovazione.
Che quadro emerge oggi sulla disponibilità di competenze nel territorio?
“Il quadro è chiaro: le richieste delle aziende superano ampiamente la capacità del Politecnico di formare ingegneri. Non è un fenomeno locale, ma una tendenza nazionale aggravata dal calo demografico. Il territorio avrebbe bisogno di molti più tecnici qualificati rispetto a quelli che oggi vengono immessi nel mercato del lavoro. A questo si aggiunge un altro fattore: Milano. L’attrattività del capoluogo, in termini di opportunità professionali e di ecosistema tecnologico, esercita una sorta di attrazione gravitazionale sui giovani che si formano nei poli territoriali. Una parte significativa dei talenti tende a spostarsi verso la metropoli. Per questo uno degli obiettivi principali del Polo cremonese è trattenere competenze e fidelizzare gli studenti al territorio, creando collaborazioni, stage, progetti e occasioni di lavoro qualificate nella pianura lombarda”.
A che livello tecnologico sono oggi le imprese che richiedono queste competenze?

“Molto eterogeneo. Da un lato ci sono aziende che rappresentano vere eccellenze mondiali: allevamenti zootecnici completamente automatizzati, sistemi di controllo tramite sensori IoT, robot per alimentazione e pulizia, piattaforme per l’agricoltura 4.0. Realtà che mostrano una capacità di innovazione sorprendente e che potrebbero dialogare ad altissimo livello con qualunque centro di ricerca internazionale. Dall’altro lato esistono imprese più tradizionali, spesso a conduzione familiare, che stanno iniziando ora a comprendere la necessità di digitalizzare i processi, migliorare l’efficienza e ridurre l’impatto ambientale. Per queste realtà, il Politecnico può rappresentare un accompagnamento fondamentale”.

La Generazione Z chiede un rapporto più diretto con il mondo del lavoro. Come può rispondere il Polo di Cremona?
“Il luogo comune secondo cui l’università italiana è distante dai bisogni delle imprese è solo in parte vero. Il Politecnico lavora stabilmente con il mondo produttivo: seminari tenuti da aziende, testimonianze in aula, mentoring, project work, visite nei siti produttivi. Il vero nodo sta nella ricerca applicata. Le PMI spesso non hanno la capacità economica di sostenere progetti di medio-lungo periodo, e ciò limita le opportunità di trasferimento tecnologico. Qui servirebbe un modello intermedio, simile ai noti Fraunhofer tedeschi, che accompagnano le imprese dalla fase prototipale alla realizzazione industriale. In questo contesto, Cremona può diventare uno snodo essenziale per costruire ponti concreti tra didattica, ricerca e imprese, soprattutto nel settore agritech”.
Per le PMI, come si costruisce un dialogo efficace con il Politecnico?
“Il punto chiave è iniziare a parlarsi. Le imprese devono esprimere le loro esigenze, anche quando non sanno precisamente che cosa chiedere all’università, e il Politecnico deve aiutare a tradurre questi bisogni in progetti. L’università non fornisce soluzioni immediate chiavi in mano: offre analisi di fattibilità, dimostrazioni sperimentali, prototipi, modelli, cioè la fase iniziale dell’innovazione. Le aziende devono poi portare avanti la parte più lunga e costosa del processo. In Italia manca ancora un ecosistema strutturato che colmi la distanza tra questi due mondi, e le PMI non possono farsi carico da sole della ricerca avanzata. Per questo serve una collaborazione di sistema, che coinvolga enti pubblici, consorzi e associazioni industriali”.

Il finanziamento della ricerca nei poli territoriali è una sfida riconosciuta. Come si può affrontare?
“E’ uno dei problemi più complessi. I poli territoriali dipendono in buona parte da finanziamenti pubblici e da interventi locali che non sempre hanno la forza strutturale necessaria. Le grandi aziende possono sostenere ricerca continuativa; le PMI no. Il Politecnico è molto competitivo nell’attrarre fondi europei, ma questi finanziamenti riguardano ricerche di base o progetti di ampio respiro, non sempre facilmente trasferibili alle piccole imprese. Tra prototipo e prodotto finale c’è appunto quella “valle della morte” che richiede investimenti consistenti. La soluzione sta in reti territoriali più robuste, incentivi dedicati e modelli consortili che possano sostenere sperimentazione e prototipazione”.
Perché uno studente della Pianura dovrebbe scegliere Cremona invece che Milano?

“Per alcuni corsi non c’è alternativa: Music & Acoustic Engineering è solo a Cremona, Agricultural Engineering è simile solo ad un altro corso erogato dal Politecnico di Torino. Ma anche per i percorsi in Ingegneria Informatica e Gestionale la scelta non è secondaria. Milano offre un ecosistema vibrante, ricco di stimoli culturali e professionali. Cremona, però, offre un ambiente più raccolto e ideale per un percorso di studi impegnativo, con costi di vita più sostenibili e un rapporto più stretto con docenti e laboratori. È una scelta tra due modelli diversi di formazione: la grande città e il campus territoriale. Entrambi validi, ma spesso la qualità della vita e la concentrazione che Cremona consente sono fattori decisivi”.
È possibile costruire alleanze strutturate tra atenei per un sistema universitario integrato della Pianura?
“Cremona è un caso virtuoso: le università presenti collaborano da anni, e il corso in Agricultural Engineering nasce proprio da una partnership con l’Università Cattolica. Su scala più ampia, tuttavia, entrano in gioco logiche di finanziamento che premiano il numero di studenti, creando una concorrenza naturale tra atenei. Servirebbe rivedere alcuni criteri per preservare competenze rare – come gli ingegneri elettrici, oggi pochi ma indispensabili – e favorire collaborazioni più forti. La strada è lunga, ma il potenziale c’è”.
Sul fronte istituzionale, è possibile immaginare una Pianura realmente coordinata oltre i confini provinciali?

“Servirebbe un cambio culturale profondo. Le resistenze localistiche tra comuni, anche confinanti, limitano la capacità del territorio di affrontare sfide che richiedono massa critica, risorse condivise e competenze centralizzate. Con popolazione in calo, servizi sempre più complessi e difficoltà a reperire personale tecnico, pensare di mantenere ogni funzione in ogni singolo comune non è più realistico. Il Politecnico può svolgere un ruolo culturale importante: favorire la cooperazione, mostrare ai territori che la collaborazione porta efficienza, qualità e attrattività, mentre la frammentazione riduce le possibilità di sviluppo”.









